Piccola storia della nostra DOP

L’autunno arriva con le sue ombre lunghe sui giorni lasciati silenziosi.

Mia madre alza uno sguardo al cielo: sta passando uno stormo di uccelli, lo segue volare via e in cuor suo lo saluta valutando il lungo viaggio che forse farà. Soffia un filo di vento, con le dita stringe i lembi della giacca per ripararsi un po’.
Ha un brivido, ma sorride.
Accetta ciò che annuncia il mite cambiamento in corso. Prosegue con il suo secchio di mangime da portare alle asine, con gli stivali calpesta il terreno,  contando gli ultimi cespugli di fiori di Veronica azzurri e di tarassaco gialli, odorando la terra umida e le cortecce. Accarezza le orecchie delle due amiatine mentre mangiano. Poi infila le mani in tasca, sente la consistenza nodosa, la buccia fresca delle prime castagne raccolte nel boschetto lì accanto. Sorride, di nuovo.  Si  gode il rientro a casa, ma senza affrettare il passo. Stasera inciderà i frutti e li metterà sulla stufa ad arrostire. Ne ha giusto un paio per ciascuno dei tuoi nipoti.

Domani e gli altri giorni ancora tornerà a guardare se saranno cadute nuove castagne. Poi, finalmente, la stagione olierà i suoi ingranaggi e lei verrà con il cesto, coinvolgerà i bambini.

Mio padre passeggia per il bosco indossando il suo logoro gilet. Tiene le mani in tasca perché ha le nocche tutte screpolate dal vento e da questo primo freddo che fa. Le mani però non si riparano completamente nelle tasche, perché dentro ci ha già messo tutte  le castagne che ci stavano. Con le lunghe dita le tasta e ne valuta la compattezza. Non sarebbe strano se ad un certo punto si fermasse, estraesse dalla tasca un frutto e ammirandola come fosse un diamante dicesse  “Guarda questa: è perfetta”. Non sarebbe strano, e infatti così fa. Che fosse una castagna perfetta l’aveva già capito al tatto, ma probabilmente lo appagava l’idea di osservarla alla luce calda e calante dell’autunno.

– “Guarda dove metti i piedi, o inciamperai” – mi dirà sorridendo e superandomi agile.

Io non sono così brava a camminare nei boschi, ma probabilmente è anche perché non sento questa appartenenza viscerale al territorio, che invece caratterizza mio padre e mia madre. C’è qualcosa, che forse io non capisco, e che non c’entra con chiese e campanoni.  C’entra proprio con la terra, quella piena di radici ancorate a suggere follemente nutrimento e acqua. C’entra con la terra difficile da coltivare, storta, collinare, o su cui crescono castagni di crinale. Perché di castagni in piano noi ne abbiamo pochi. Non è mai esistito un autunno della mia vita in cui io non abbia visto con quanta naturalezza, in fondo, i miei genitori si trasformassero in creature che esistono per il bosco. Stanno lì, ad aspettare quel corso che le stagioni fanno, a sperare che tutto vada come pregano da mesi. A ripetere quanto è piovuto, o è stato siccitoso. Ad arrabbiarsi per quanto hanno sofferto le piante.  A discutere di legna per i gradili. A fare pronostici sulla dolcezza della farina, che normalmente sarà pronta dopo i Santi.

A dirla così, sembrano persone semplici. E sì, in effetti lo sono.
Non si tratta mai di apparire diversi o migliori, hanno un approccio schietto nei confronti delle materie prime che trattano. Sono sinceramente accaniti.

Hanno fatto una specie di patto con la comunità, basato sulla migliore genuinità del prodotto.  

Raccolgono, comprano, offrono, lavorano solo il meglio di ciò che il territorio regala, a volte con una certa parsimonia.
Per due persone che ragionano in questo modo, etichettare come DOP la loro farina di castagne significa vedere riconosciuta la tenacia con cui hanno vissuto le loro vite.
Anche lo scorso autunno è venuto e ha portato il suo ristoro. Ci ha dato ascolto, ha portato una velleità di tregua.